Willy Merz | Giuseppe Di Bella – Tre Sogni Di Sanciu

Giuseppe Di Bella, ennese, cantautore, poeta, chitarrista, interprete, ricerca la propria originarietà in una sintesi evolutiva della canzone contemporanea, vicina alla musica di composizione colta ma che si nutre dalla grande canzone d’autore e popolare del Novecento. Musicista vulcanico, ricco e prodigo di idee. Nel 2015 con Enrico Coppola pubblica “Il tempo e la voce”, un lavoro di restituzione dai testi e contesti della Scuola poetica siciliana duecentesca, salutato con entusiasmo dalla critica specializzata, accolto dalla Società Dante Alighieri, presentato al Museo di Palazzo Riso, presso Il Teatro Biondo di Palermo e all’IIC a Barcellona in Spagna. Un suo brano è al centro del cortometraggio musicale “Lassami”, diretto da Gianluca Sodaro, con la partecipazione dell’attrice italo-francese Angelique Cavallari De la Tour. Due anni dopo la sua canzone “D’amurusu pais”i, coi versi di Tommaso di Sasso, è la colonna sonora del video d’arte di Antonella Barbera e Fabio Leone, in cui Mimmo Cuticchio è oprante e attore protagonista coi suoi pupi. Del 2018 è “Fuddìa”, opera musicale e letteraria tra versi e narrazione, in cui la contemplazione è già partecipazione: al paesaggio, nello spazio, nell’azione umana. Nel 2020, ancora in collaborazione con Enrico Coppola, esce “Orfeo”, articolato concept album sul mito, che vede tra gli ospiti e i collaboratori Ilaria Patassini Pilar, Mimmo Cuticchio, i Fratelli Mancuso, Giovanni Arena, Michael Occhipinti, Cinzia Maccagnano, Federico Ferrandina, Attilio Ierna. Più volte finalista al Premio Parodi, al premio Botteghe d’Autore e al Premio Tenco. Nel 2022 esce “Sette Arcangeli”, sviluppata nell’incubatore creativo Almendra Music a Palermo. Nel 2024 è la volta di “Tre Sogni Di Sanciu”. Lo raggiungiamo per ripercorrere il suo originale percorso artistico.

Proviamo a riannodare i fili della tua educazione musicale e delle tue influenze?

Prima di ricevere un’educazione musicale di tipo accademico, formativo, io sono figlio di due genitori entrambi musicisti: mio padre è stato per lungo tempo un chitarrista e anche un arrangiatore qui nel nostro entroterra siciliano, ha fatto diverse cose, per un periodo tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90; lui era molto influenzato dal fingerpicking, il bluegrass, la musica acustica del Nord America, soprattutto quella per chitarra. Mia madre invece è una pianista classica, ha studiato pianoforte fino al sesto anno di conservatorio e poi nel frattempo sono arrivato io. Quindi diciamo che’ in un certo senso io sono stato l’interruzione e allo stesso tempo la genesi di un nuovo momento musicale perché, dei tre fratelli che siamo, io sono stato l’unico a raccogliere in maniera compiuta questa eredità della musica. Quindi sono cresciuto con la musica fin da bambino, cioè noi in casa ascoltavamo musica di tutti i tipi in maniera costante. Sono cresciuto ascoltando da piccolo, a parte i cantautori che erano una cosa abbastanza ovvia,  soprattutto moltissima musica jazz, musica vocale, musica classica, musica per chitarra, per pianoforte, la musica del romanticismo e questa è stata una prima influenza; oltre ad ascoltare la musica che suonavano i miei genitori, c’era anche quella di alcuni musicisti che venivano in casa per collaborare. In quel periodo c’è stata anche la scoperta di un mio grande amore musicale che è Pat Metheny. Lui fu uno dei primi a raccogliere questo frutto della musica mista, della musica che veniva da varie parti del mondo e convogliarla in una sorta di nuova fusion-jazz molto contaminata e anche molto popular, almeno nella fase iniziale. È stato il primo assoluto imprinting; poi ho cominciato a studiare la chitarra al liceo musicale e al conservatorio, dove sono arrivato fino al quarto o quinto anno di chitarra, poi ho smesso di studiare chitarra perché sono andato a Bologna e lì è iniziata la mia seconda passione o, meglio, la mia seconda ossessione che è stata quella per la letteratura e per la poesia contemporanea.

Nonostante tu abbia avuto un padre che era appassionato di musica americana dove la chitarra classica con le corde di nylon si usa pochissimo, tu sostanzialmente sei rimasto fedele a questo strumento. 

Sì, anche se nei miei dischi la Martin D35, uno standard della musica folk americana, l’ho spesso utilizzata e poi ho anche studiato e suonato alcuni brani di vari chitarristi come Giovanni Unterberger, Stefan Grossman e altri. Però nella mia musica la chitarra classica è rimasta forse lo strumento privilegiato, perché credo che al di là degli studi ho sviluppato un feeling molto particolare con questo strumento. Quello che sono riuscito a tirare fuori almeno per la mia musica con la chitarra classica non è venuto fuori con la chitarra folk con le corde di metallo. La musica del Mediterraneo è spesso suonata da strumenti con corde di budello o di nylon, strumento. La chitarra classica è più malleabile rapportandola con la voce, dalle corde di nylon si può dire che si può tirar fuori un canto.

Dicevi che poesia e letteratura sono diventate una parte fondamentale nel tuo percorso artistico nel periodo bolognese. 

In quel periodo frequentavo moltissimo anche le presentazioni di poesia contemporanea a Bologna, il centro di poesia contemporanea dell’università e ho cominciato a scrivere anche in maniera sistematica i miei primi versi: è nato il mio primo libro di poesie e quando è finita l’esperienza professionale lavorativa che mi assorbiva moltissimo con una rivista letteraria, ho capito che dovevo tornare fortissimamente alla musica e il mio tornare alla musica è coinciso anche con il mio tornare in Sicilia, quindi un doppio richiamo sia alla musica che al ritmo al sud. È stato questo ritorno che mi ha fatto poi rifondere in un’unica eco, in un’unica voce sia l’interesse per la poesia che per la musica. 

Uno dei tuoi primi dischi, riguarda proprio uno specifico studio sui poeti siciliani del ‘200 ed è anche un album che tu hai realizzato insieme a Enrico Coppola.

Enrico è un musicista mio conterraneo con cui ci siamo ritrovati in questo luogo al centro della Sicilia, quasi con quella di solitudine di cui parla Sciascia, a pensare di creare qualcosa. In realtà io avevo già registrato e completato tutte le tracce di quello che è stato il mio secondo album “Fuddia”, che anche se è

uscito dopo in realtà è stato realizzato prima. Quindi cronologicamente a livello proprio di genesi “Il tempo e la voce” è successivo a “Fuddia”. È un lavoro molto particolare perché la poesia siciliana dei poeti siciliani sotto Federico II sono stati tramandati a noi non nel volgare siciliano del ‘200 ma in toscano, perché dopo Dante la lingua universale per l’Italia è diventata il toscano fiorentino duecentesco. Tutti i testi letterari antecedenti a Dante venivano poi tramandati e trascritti praticamente in fiorentino. Nessun filologo è riuscito a recuperare i testi originali (esiste solo un testo che è “Pirmeucoria Allegrae” di Stefano Protonotaro che è l’unico testo che è arrivato a noi in volgare siciliano). Abbiamo fatto un lavoro di fantalingua, di fantafilologia, abbiamo praticamente preso i testi toscanizzati e li abbiamo risicilianizzati utilizzando un database dell’Università di Catania con tutti i termini e le occorrenze che praticamente potevano somigliare alle parole che noi cercavamo in questo mega dizionario, alle parole del toscano. In alcuni casi era molto semplice perché dal toscano al siciliano cambiava soltanto la vocale finale. Era un po’ più difficile quando i termini non erano alla fine del verso e quindi non c’era la rima che ci fornisse la soluzione o quando i termini erano completamente differenti. E lì la ricerca si faceva un po’ più problematica perché bisognava andare a trovare tra questi 8000 testi catalogati il termine che significasse quella cosa in un siciliano verosimilmente uguale a quello che usavano i poeti sotto Federico II.

A proposito de “Il tempo e la voce”, la strumentazione impiegata è molto parca e avete rinunciato a una strumentazione d’epoca. Sono semmai le melodie che , almeno in alcune circostanze, vi hanno portato verso il mondo medievale.

Ho un’idea abbastanza balzana, però ritengo abbastanza forte, cioè ritengo che quando si musicano le poesie non si tratti di sovrapporre una melodia o una tessitura musicale su un testo poetico, ma di fare l’inverso, cioè di estrarre dai versi la melodia, cioè tirare fuori dalla poesia la sua musica, cioè tirare fuori dalla poesia la sua musica. I suoni di quelle parole, i suoni di quei versi non potevano che rimandare, inevitabilmente in alcuni momenti, al sound, se vogliamo, originario. Per esempio, la “Dulsicera Placenti” è un brano che suona molto tardo medievale, primo rinascimentale. In realtà, la musica dei provenzali o dei minnesanger è leggermente successiva al periodo in cui sono scritti quei versi. I provenzali anche prima dei siciliani usavano cantare i loro versi. I poeti siciliani rappresentano un po’ uno spartiacque, perché loro cominciano a scrivere una poesia che è pensata per essere solo scritta e solo letta in forma di poesia, mentre prima, anche se le forme metriche sono assolutamente rigide, perfettamente simmetriche, perfettamente geometriche, quindi assolutamente cantabili. Fino a quel momento, la fusione del poetico e della forma canzone era molto più forte. Pensare alla poesia senza la musica era anzi quasi qualcosa di strano. Come del resto era nella Grecia: tutti i grandi lirici greci compresa Sappho erano dei musicanti, erano dei cantori, e questo è un po’ il discorso che poi ci ha portato anche a Orfeo. 

“Orfeo” è il secondo disco che avete realizzato insieme. Si potrebbe quasi considerare un’opera folk o forse meglio ancora un’opera cantautorale, ha un taglio molto acustico anche se c’è un po’ di elettronica. Poi, ci sono diversi ospiti che hanno contribuito, come i Fratelli Mancuso, una vera istituzione della musica popolare della Sicilia, ci sono Ilaria Pilar Patassini e Michael Occhipinti, chitarrista canadese, fondatore del Sicilian Jazz Project. 

Un’opera corale, i testi li abbiamo scritti noi deformando alcuni versi di Rainer Maria Rilkie e altri poeti dell’800 e del ‘900 riprendendo alcuni frammenti della lirica e degli inni orfici, per raccontare questo mito in una versione come dire non post-moderna o neoclassica ma cercando un approccio contemporaneo a

un’idea di melodramma, con varie scene, l’intervento anche di cori e di varie voci. Quindi gli ospiti non sono un vezzo, al di là del fatto che tutti quelli che hanno partecipato in questo disco sono carissimi amici e persone con le quali c’è un rapporto umano, ma era proprio l’idea che questo disco fosse un affresco di tante voci e che intervenissero più personaggi che andavano rimarcati non solo attraverso la scrittura ma anche attraverso differenti timbri, differenti quadri, differenti scene. Il disco è acustico prevalentemente, un po’ come i miei lavori, ci sono alcuni interventi di loop, di elettronica, delle manipolazioni particolari attraverso anche la post-produzione. Anche questo era finalizzato a creare una sorta di scenografia trasparente, una sorta di impalcatura musicale evanescente e cangiante su cui si svolgesse. Questo racconto e il discorso poetico viene fatto attraverso non soltanto le citazioni e i frammenti, ma anche attraverso il tentativo di portare dentro la canzone una lingua complessa, perché poi ci sono diversi livelli di fruibilità delle canzoni. Però l’obiettivo era questo, cioè portare un linguaggio poetico complesso all’interno della forma canzone.

“Il tempo e la voce” effettivamente è stato registrato tre anni dopo “Fuddìa” che dovrebbe rappresentare in verità il tuo vero debutto discografico ed è un lavoro ancora diverso, un disco che potremmo definire folk d’autore, perché si avvicina di certo alla musica popolare siciliana, anche se i brani portano la tua firma. 

Ho cominciato a scrivere canzoni a 16 anni ma grazie a Dio non esistono registrazioni di quelle canzoni, sono soltanto nella mia testa quindi quelle di “Fuddìa” sono le prime vere canzoni che ho salvato, che ho codificato, che ho impresso in un disco e che tuttora continuo ad amare. 

Possiamo dire che in questo disco hai anche portato la tua influenza ricevuta da Pat Metheny nel filtrare, nell’impiegare suoni che provengono da altre tradizioni, da altre culture, della fattispecie quelle mediterranee. 

C’è una sorta di scavo per andare a cercare delle cose da altri ambiti musicali che poi sono confluiti tutti. Ma questa cosa è naturale perché, come dicevo, essendo il primo disco, tendi a metterci dentro un po’ di quello che hai imparato fino a quel momento. Sono contento del fatto che a distanza di anni non mi trovo di fronte a un disco da prendere le distanze o in cui rilevare particolari ingenuità. Rimane un disco di canzoni sicuramente world, di folk d’autore, come dici tu, però ancora tiene.

I lavori che hai fatto dopo sono ben altra cosa dal punto di vista musicale…

Due fattori mi hanno portato altrove: la mia costante irrequietezza e poi il fatto che prima di essere un autore di poesie sono un lettore di poesia. Allo stesso modo, prima di essere un autore di musica sono un divoratore di musica di proporzioni proprio patologiche: ascolto praticamente almeno 3-4 ore di musica al giorno, la mia curiosità nell’ascoltare musica è così forte che spesso mi porta anche ad avere delle sorte di crisi perché c’è veramente un certo punto in cui non so più dove andare perché la mia natura onnivora nell’ascoltare la musica mi fa perdere il contatto con quello che poi è sempre il mio nucleo di ispirazione. In musica classica si direbbe gravità, intesa come attrazione gravitazionale, centro di gravità sono quegli istanti che ci appartengono che probabilmente sviluppiamo negli anni della formazione musicale. È un’illusione dire “adesso cambio completamente adesso faccio una musica aliena”, per quanto aliena quella musica continuerà a recare il nucleo di ispirazione che ti appartiene di più.

Vorrei aprire una parentesi sul tuo lavoro nel mondo del teatro, perché so che tu hai lavorato anche in questo ambito come autore di musiche. Hai collaborato a uno spettacolo teatrale che riguarda un evento particolarmente tragico nella storia recente della Sicilia quella del Novecento ovvero la strage di Portella della Ginestra del primo maggio del 1947.

Questo lavoro nasce dal drammaturgo Mario Calivà, che è arbereshe. Lui mi disse che aveva da tanto tempo questo spettacolo – che si chiama “Una margherita in mezzo alle ginestre” ed è sostanzialmente la storia di questa donna, che ai tempi della scrittura e anche ai tempi delle prime repliche dello spettacolo era ancora viva – che racconta questo primo maggio e questa strage dal suo punto di vista, cioè di una bambina allora di 7-8 anni, la cui madre rimane uccisa da una delle pallottole vaganti che colpirono la folla dei manifestanti sotto le bandiere rosse. Lui scrive questo monologo teatrale in siciliano, un siciliano particolare parlato a Piana degli Albanesi con alcune incursioni nella lingua arbereshe. Io come centro diciamo tematico delle musiche di questo spettacolo ho usato il brano “Moi e Bukura More”, che è appunto cantato in lingua albanese. Ci sono diversi punti di contatto tra la cultura albanese e quella

siciliana. Comunque la cosa che a lui interessava come drammaturgo era quella di creare uno spaccato narrativo su questa vicenda tragica, che avesse un significato sì politico ma anche estremamente intimo, cioè che partisse dal punto di vista di quelle persone, che erano assolutamente inconsapevoli dei meccanismi grandi che si muovevano dietro a quegli eventi, a quelle forme di cambiamento, perché lì c’erano le leggi che cominciavano a determinare una maggiore autonomia e un maggiore riconoscimento dei diritti da parte di chi lavorava la terra, a discapito dei padroni. Tutto quel processo lui ha cercato di raccontarlo drammaturgicamente in una maniera essenziale e soprattutto dal punto di vista di chi come vittima ha vissuto quella cosa. E quindi le mie musiche sono questo, delle forme di frammento in cui metto insieme sostanzialmente una serie di sensazioni musicali, a volte con pezzi di testo, a volte semplicemente con l’utilizzo della voce come strumento, e la chitarra ovviamente, per andare a sottolineare i vari momenti emozionali di questo racconto. 

Veniamo a tempi più recenti e cioè ai tuoi ultimissimi lavori che, devo dire, sono piuttosto impegnativi, di certo più impegnativi nell’ascolto di quanto non lo fossero i tuoi lavori precedenti. Da dove è nata l’ispirazione per i “Sette Arcangeli”? 

Va specificato che quel disco è stato scritto durante il lockdown; nasce da una forma di raccoglimento profondo, di silenzio, il silenzio degli angeli, lo abbiamo chiamato con il mio produttore musicale di quel disco che è Gianluca Cangemi di Almendra Music, questo silenzio degli angeli attorno al nostro io. In realtà, in questa grande pausa del mondo abbiamo avuto modo di sospendere tutte quelle attività sia reali che mentali che occultano di solito la nostra interiorità, cioè il nostro dialogo con la parte più profonda di noi. Da tempo frequentavo alcune letture mistiche pur essendo completamente ateo. Sono sempre stato molto affascinato dalla lettura sia del Vangelo, ma perfino a volte anche dell’Antico Testamento, che dai testi di teologia, soprattutto la teologia negativa o la patristica e alcuni testi della grande mistica che si possono riassumere in due principalmente per quella che è la mia esperienza, cioè “Dionigia” l’Aeropagita”, poi ancora il lavoro di Hildegard von Bingen che è stata una grande mistica e anche una 

grande autrice di musica. Poi in quel periodo cominciai a leggere anche Cornelio Agrippa, Ideo Occulta, insomma è stato un viaggio molto molto particolare. Ora il mio interesse per la mistica è derivato dal fatto che non credendo appunto dò un significato a questi a questi testi a queste ricerche che sono sostanzialmente la testimonianza che al di là del nostro io biografico e professionale: esiste tutto un mondo che potremmo definire sotterraneo, inconscio o spirituale, come si vuole, che ha delle possibilità che sono molto più grandi di quelle che noi abbiamo nella nostra vita quotidiana, ordinaria, e soprattutto la possibilità di comunicare con dei mezzi che non sono strettamente legati alla razionalità. Quel disco, per dare una risposta che sia sintetica e allo stesso tempo un po’ realistica, è che è una sorta di mio grande inno all’antimaterialismo. Ho pensato che non ci potesse essere nulla di più antimaterialistico degli angeli. Ora, poi, perché gli arcangeli? Perché in realtà gli arcangeli sono delle figure molto particolari che stanno esattamente a metà fra il mondo e le più alte Sfere Celesti e la Terra. Sono una sorta di messaggeri e di via di mezzo, di anello di protezione tra l’uomo e quella che poi è la dimensione invece divina o demoniaca, perché gli arcangeli sono anche guardiani che difendono nella mistica dalle varie schiere demoniache. In realtà, poi nel disco non si parla di niente di tutto ciò, cioè i testi sono testi scritti quasi con una procedura di phonè; io avevo i temi musicali e su questi temi musicali improvvisavo delle parole, improvvisavo dei testi che mi venivano quasi suggeriti dalle sillabe che potevano contenere quelle frasi musicali. Improvvisavo queste parole basandomi sulla possibilità di modulare il canto rispetto alla linea melodica che avevo scritto. Quindi c’era un giro armonico, c’erano delle linee melodiche di forte ispirazione modale e questo probabilmente che rende il disco non di facile ascolto e impegnativo. Cercando di trovare dissonanze e di trovare il più possibile forme alternative di melodia su un giro di accordi definito. Quindi non era proprio una musica modale alla Miles Davis, con un’idea molto fissa anche di base armonica e un fraseggio costruito proprio scientificamente su quelle scale. Era un’idea diversa cioè l’idea di utilizzare i differenti modi delle scale anche lì per esprimere delle sensazioni differenti, quello che un po’ nella musica greca venivano chiamati gli affetti musicali, cioè in base al  contesto veniva utilizzato un diverso tipo di scala per rappresentare un’emozione diversa. Allora per me ogni arcangelo corrispondeva a un differente tipo di scala modale, a un differente tipo di intervalli che poi venivano completati dall’uso degli accordi. 

Occupiamoci del tuo ultimo album, “Tre sogni di Sanciu”, un altro lavoro estremamente originale, direi anche singolare, anche questo basato soltanto sulla voce e sulla chitarra con tre soli lunghi brani.

Da “Orfeo” ai “Sette Arcangeli” c’è stata una fascinazione per la musica contemporanea. Infatti, subito dopo Sette Arcangeli è uscito un mio singolo, insieme al grandissimo compositore e chitarrista Marco De Biasi, che era la musicalizzazione, da parte sua questa volta, di un testo di David Maria Turoldo e quello è stato il primo mio incontro diciamo con una scrittura che in qualche modo avesse a che fare con la musica contemporanea. Dopo quell’esperienza, ho avuto la fortuna di conoscere Willi Merz, sia perché lui collabora a livello curatoriale con la mia etichetta di Palermo che è Almendra Music, sia perché ci siamo conosciuti fisicamente in occasione di un mio concerto all’interno del Museo ZAC Centrale di Palermo, dentro i cantieri culturali della Zisa, in cui io facevo questo omaggio a Borges suonando delle canzoni del musicista argentino Pedro Aznar, uno dei miei assoluti riferimenti musicali. E lui era lì, insomma, perché faceva parte della direzione di questa serie di eventi, sia musicali che artistici, all’interno dello ZAC. Abbiamo cominciato a parlare e lui rimase colpito dalla mia performance musicale dal mio modo di suonare la chitarra e di cantare che a suo modo di vedere era assolutamente sui generis, sopra le righe perché ai suoi occhi non ero né un cantautore né uno che fa musica classica quindi dal suo punto di vista era talmente strano che gli venne in mente di scrivere qualcosa ad hoc per me. Il testo che tu senti in realtà non è così antico, è un poema scritto dal poeta palermitano Giovanni Meli del Settecento, ispirandosi alle storie di “Don Chisciotte” di Cervantes. Scrive una sorta di versione siciliana del Don Quixote, ma non una traduzione degli stessi eventi, immagina sostanzialmente che Don Chisciotte sia nato in e  viva in Sicilia, vivendo le sue avventure totalmente originali, ambientate dentro la Sicilia. Willy Merz ha preso questo enorme poema, composto da circa 8.000 versi, ne ha estratto delle parti veramente brevi e le ha musicate in questi tre brani che tu hai sentito. I tre brani sono molto diversi, l’ispirazione se vuoi può

essere anche un po’ quella di Maurice Ravel che ha fatto un lavoro simile su Don Chisciotte, simile come ispirazione ma musicalmente non c’entra nulla, ed è una sorta di lavoro ibrido tra la musica contemporanea da cui viene Willi, quindi con tutta una serie di asperità, di dissonanze, di forme anche poco intuitive sia a livello armonico che melodico, ma allo stesso tempo c’è il fortissimo richiamo alla musica tradizionale siciliana e mediterranea con tutta una serie di echi interni che lui utilizza, con ritorni di temi eccetera. Io lì ho curato sia l’interpretazione vocale e ho rivisto molto la parte chitarristica su cui lui mi ha lasciato grande libertà; cioè lui ha scritto questa musica a spartito proprio come una composizione vera e propria ma la parte chitarristica, un po’ come si usava nella musica barocca, era molto libera, c’erano i riferimenti dei bassi e alcuni arpeggi però poi tutto il grosso e l’arrangiamento chitarristico l’ho fatto io su quella linea che lui mi aveva dato. 

Recentemente hai pubblicato due singoli: una rilettura di “Come è profondo il mare” di Lucio Dalla e “Terraferma” che invece è una tua composizione originale…

“Come è profondo il mare” e “Terraferma” sono singoli speculari, uno è un omaggio al grandissimo Lucio Dalla, che ho sempre amato. La trovo straziante, commovente anche nella sua difficoltà di leggere il testo in termini convenzionali. Fa da contraltare alla mia canzone che parla sempre del mare, di un mare meno oggettuale, più fisico, quello dei migranti morti in mare. Parla di quelle persone che purtroppo nel tentativo di attraversarlo rimangono nel Mediterraneo e affondano. “Spero di non perdermi le stelle in fondo al mare”, dice la frase finale; l’idea che queste persone quando noi guardiamo il mare lo vediamo riflettersi nella notte, queste stelle che sono in alto si riflettono nel mare come se fossero nelle profondità 

marine, allo stesso modo in cui vivono le profondità marine queste persone che purtroppo da lì non se ne andranno mai. 

Con questi singoli si può dire che sei tornato a una forma canzone più vicina alla musica leggera?

Fare delle scelte come le mie non paga per rientrare nei segmenti di mercato. Trovo che sia una scelta di sincerità e di coerenza alla quale non ho potuto rinunciare. Ho pronti e raccolti negli ultimi due anni non so quanti di questi temi, alcuni dei quali forse diventeranno effettivamente canzoni, forse alcuni andrò sicuramente verso una direzione che è un po’ una via di mezzo ovvero verso qualcosa che sicuramente ricorderà molto di più la canzone da un punto di vista attrattivo, dell’impatto eccetera ma che conserverà di certo anche le esperienze più complesse che ho fatto negli ultimi anni.

Intervista rielaborata, con la collaborazione di Ciro De Rosa, sulla base dell’originale raccolta per il programma radio “FolkBeat” in onda su ADMR Rock Web Radio

Willy Merz | Giuseppe Di Bella – Tre Sogni Di Sanciu (Almendra Music, 2024) 

Definire Giuseppe Di Bella un cantautore può risultare piuttosto riduttivo per questo artista così evoluto e letterato: infatti è un chitarrista dotato di una tecnica molto personale e ben superiore per competenza alla stragrande maggioranza dei suoi colleghi; inoltre ha da sempre una spiccata propensione verso la parola scritta che l’ha portato a dare alle stampe diverse raccolte personali e soprattutto a operare costantemente alla ricerca di un punto d’incontro fra poesia, musica colta e popolare nella sua più ampia eccezione. Questo personale percorso è proseguito, in maniera ancora più evoluta e singolare, nella più recente fatica discografica dell’artista siciliano. “Tre Sogni Di Sanciu” riprende in parte un discorso iniziato con il suo precedente lavoro, “I Sette Arcangeli” (Almendra Music, 2022) che documenta i suoi primi passi di avvicinamento alla musica contemporanea di cui si racconta nell’intervista. Di questo album, registrato in pratica quasi del tutto in presa diretta (unica eccezione è data dall’intervento in un brano di Marco Beasley), esiste anche una serie di video d’arte, ciascuno dei quali riconducibile a ogni singola traccia e facilmente visionabile su Youtube.  Anche con il successore ci troviamo al cospetto di un’opera basata esclusivamente sulla voce e la chitarra di Giuseppe Di Bella ma in questo caso il suo lavoro è stato perlopiù di carattere interpretativo anziché compositivo. I tre lunghi brani che compongono il disco, infatti, portano tutti la firma di Willi Merz, contrabbassista e direttore d’orchestra originario di Losanna ma residente nel nostro paese, e soprattutto compositore i cui lavori sono stati interpretati da molti artisti e ensemble di caratura internazionale. Le tre composizioni si ispirano ai versi del poeta e drammaturgo palermitano Giovanni Meli (1740-1815) contenuti in “Don Chisciotti e Sanciu Panza” (1785-1786); interamente scritto in dialetto siciliano settecentesco, la stessa lingua usata poi nel disco, questo poema eroicomico in ottave è considerato l’opera più significativa dell’autore e fra le più rilevanti della letterature italiana del XVIII secolo. Willi Merz ha composto tutte le partiture dei tre brani appositamente per il cantautore di Enna lasciandogli però la massima libertà espressiva per quel che concerne non solo l’interpretazione vocale, la cui enfasi talvolta non può che rimandare alla grande tradizione isolana dei cantastorie; Giuseppe infatti è intervenuto in maniera considerevole sul lavoro della chitarra che, pur pur tenendo conto dello spartito iniziale, è stato ampiamente rielaborato secondo la sua personale tecnica e sensibilità, forgiate attraverso gli ascolti musicali più eterogenei. Le tre composizioni – “L’Isola”, “Dulcinia” e “Guerra” – sono dunque il risultato di una singolare quanto efficace miscela di sonorità colte e richiami alla tradizione musicale siciliana e più in generale mediterranea: nel primo dei tre brani in particolare è facile rinvenire fra le note  della chitarra echi non troppo lontani di flamenco. Inevitabilmente, anche al di là un primo ascolto, l’opera può apparire piuttosto monolitica e di certo non di facile accesso, ma in verità fra le pieghe di ogni singolo frammento si può rinvenire un numero pressoché infinito di variazioni armoniche, ritmiche e melodiche; soltanto un musicista e cantante così talentuoso e unico come Giuseppe Di Bella avrebbe potuto affrontare e eseguire in maniera ottimale “I Tre Sogni di Sanciu” e immedesimarsi a tal punto con il contenuto da riuscire a dare vita ad atmosfere antiche e allo stesso tempo di ardua databilità.

Massimo Ferro

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