Dal 13 al 15 ottobre si tiene a Cagliari la nona edizione del Premio Parodi. È un’edizione di altissimo livello, che conferma come il Parodi si sia ormai imposto come il maggior appuntamento italiano dedicato alla world music: “il giornale della musica” – media partner del Premio – vi presenta gli artisti finalisti.
Un duo – quello fra il poeta e cantante Giuseppe Di Bella e il bassista Enrico Coppola – che si distingue nettamente per la proposta artistica sulla scena del “folk” e della “musica mediterranea” (virgolette d’obbligo) in Italia: nato nel 2013, il sodalizio fra i due si dedica da subito a un lavoro sul repertorio poetico della Scuola siciliana, cercando nuovi vestiti musicali per opere letterarie vecchie di quasi 900 anni. Il disco di esordio, autoprodotto nel 2016, porta il nome del progetto stesso: Il Tempo e la voce.
Come è nato il progetto Il Tempo e la voce?
«Ci stimolava molto l’idea di scrivere qualcosa che fosse senza dubbio lontana dall’idea di ciò che oggi sono le prescrizioni del panorama musicale, un disco che suonasse immediatamente come diverso e a sé stante agli ascoltatori ormai assuefatti a certi tipi di prodotto. Non siamo due musicisti isolati in provincia, ascoltiamo con attenzione le molte cose che escono quotidianamente, sia sul mercato cosiddetto indipendente che su quello mainstream, proprio per questo non ci interessava battere la strada ormai anch’essa inflazionata di un eclettismo fuori dai generi che ormai è di genere anch’esso. Abbiamo allora cercato di spogliarci di tutte le distrazioni del presente cercando l’origine più che l’originalità, risalendo al luogo non solo fisico, ma anche immaginario e poetico dove la nostra cultura è nata ottocento anni fa ancora prima di Dante: la corte di Federico II. Si tratta forse di un’operazione azzardata, ma ci affascinava la sfida e senza presunzione crediamo in massima parte di esserci riusciti».
Vorrei chiedervi qualcosa sul lavoro musicale che avete compiuto sui testi siciliani… Qual è la fonte della musica? Quale la sua ispirazione – anche in merito all’arrangiamento, come avete lavorato?
«La prima parte del lavoro è stata quella di riportare questi testi, tradotti in toscano già sul finire del Duecento, alla loro forma antica, cioè quella di un volgare siciliano colto. Ci siamo sentiti doppiamente attratti dal fatto che nessuno negli ultimi otto secoli avesse più usato questa lingua nel canto o nella poesia e che quindi pur abbandonando l’uso dell’italiano ci stavamo mantenendo altrettanto lontani dal dialetto e dal suo particolarismo. Con la stessa meraviglia di esploratori che per la prima volta dopo secoli entrano in un luogo rimasto intatto, ci siamo trovati davanti una lingua splendida e fuori dal tempo, già di per sé straordinariamente musicale. Il secondo passo è stato quello di rapportarci con strutture metriche molto complesse e rigide come quelle della poesia medievale. Come per le scelte strumentali e di arrangiamento ci siamo lasciati guidare dalla bellezza di questi testi, scomponendo le forme canoniche della canzone moderna e ricomponendole attorno alle poesie come un abito. Il risultato spiazzante alla fine è stato quello che queste forme, pur essendo mutate profondamente nella sostanza, hanno mantenuto la loro funzionalità e non si sono disarticolate».
Voi partecipate al Premio Parodi, un concorso intestato alla “world music”. Vi riconoscete in questa etichetta?
«Partecipare al Parodi ed essere fra questi finalisti è un onore, perché questo premio è ormai uno dei più seri avamposti per la selezione e la tutela del paesaggio musicale. Noi cerchiamo un equilibrio sottile che sia sempre in progress, dove la composizione stia al centro e le atmosfere, gli stilemi siano meditati e utilizzati in senso profondo, come appartenenza e fonte. Essere nella world music per noi potrebbe solo voler dire rispettare una mediterraneità in grado di cercare un respiro originario comune, che ci permette di spaziare verso lidi a noi affini. Per esempio la poesia della Scuola siciliana da noi musicata è debitrice contemporaneamente verso la tradizione dei poeti arabi di Sicilia e quella provenzale e, a sua volta, passando in Toscana attraverso Dante e Petrarca, entra a far parte del patrimonio letterario europeo. Quella che noi cerchiamo non è una contaminazione postmoderna o un eclettismo gratuito, ma l’attualità delle nostre radici. L’idea che il mondo antico fosse più chiuso e stagnante del nostro è un falso storico e ideologico».
Un esercizio di profezia: come sarà la “world music” fra vent’anni?
«La “world” potrebbe catalizzare potenzialmente tutte quelle tensioni della musica di ricerca come hanno fatto nel passato altri generi più mainstream; la world potrebbe diventare fortemente di massa, in un senso positivo, dilatandosi come il jazz in un contenitore più liquido e aperto, e in questo modo sopravvivere ai suoi cliché etnici e di ensemble. Immaginiamo una world music di questo tipo, meno caratterizzata, con un’identità meno definita e territoriale, e quindi in grado di assorbire un più grande flusso di linguaggi e dimensioni».
Jacopo Tomatis 11 ottobre 2016